Documento programmatico per le prossime azioni nel Dipartimento di Biologia e nei Piani di Ateneo per lo Sviluppo Sostenibile

 

1. La medicina di genere in Italia e la ricerca nelle bioscienze

Negli ultimi mesi diverse iniziative, tanto in ambito scientifico quanto politico e istituzionale hanno trovato spazio nel dibattito pubblico in Italia mettendo in evidenza realtà e proposte gender oriented che acquistano rilevanza in particolare nei settori biomedici, farmacologici, della sperimentazione e della formazione.
Infatti dentro il più generale e ormai ‘antico’ discorso sulla parità fra donne e uomini, che declinato nei suoi vari aspetti – diritti, opportunità, quote ecc. – appare ormai largamente rappresentato – per quanto incompiuto – e insistito in ambito di normative europee, si fa strada in maniera crescente e in vari ambiti specifici del sapere il discorso sulla differenza.
Ampiamente fondato ed esplorato nel campo dei Gender Studies e della riflessione teorica storico antropologico-filosofica a partire almeno dagli anni ’70, oltre a diffondersi nel sentire comune, il discorso sulla differenza infatti, emerge ormai in modo crescente anche nell’ambito delle discipline biomediche. Come strettamente correlato agli orientamenti della medicina personalizzata, e dunque non più limitato all’ambito della sfera della salute riproduttiva della donna.
La Medicina di Genere appare dunque un ambito che attualmente a partire dalla ricerca e dalla sperimentazione riconosce e prende in esame la differenza femminile. In questo senso si orientano approcci di ricerca e sperimentazione in diversi progetti promossi in ambito farmacologico (SIF, AIFA), in settori interni agli Istituti di Ricerca (ISS), nella formazione del personale medico in ogni sua singola figura, nei percorsi medici dedicati dentro le strutture sanitarie territoriali (i bollini rosa assegnati da Onda – Osservatorio Nazionale Salute della Donna), nelle politiche sanitarie, da cui le normative regionali ma anche per la prima volta una proposta di legge in Parlamento. E’ infatti attualmente in discussione alla Camera una proposta di legge (n.3603) sulle professioni sanitarie che tra i suoi articoli ne prevede uno che considera la medicina di genere come un metodo e non come un campo a sé.
Nella stessa direzione una recente mozione del CUN che, quanto a revisione degli ordinamenti, inserisce in modo trasversale la medicina di genere nelle diverse discipline.
Ma in particolare il settore più attivo e centrale in questa fase appare proprio essere quello della ricerca pre-clinica e della sperimentazione su animali (Istituto Superiore di Sanità, Centro Medicina di Genere diretto da W. Malorni).

 

2. “La ricerca di genere nelle bioscienze, per uno sviluppo sostenibile”. La ricerca e i percorsi istituzionali

Sollecitati da questo panorama vasto e articolato, il gruppo di lavoro di Starbios2 (gruppo di ricerca di “Immunologia e Patologia Generale” del Dipartimento di Biologia) in occasione del Festival dello Sviluppo Sostenibile, in collaborazione con Antonella Canini e il Dipartimento di Biologia, la Commissione di Ateneo per la Sostenibilità, il Comitato Unico di Garanzia di Ateneo, ha organizzato una mattinata di colloqui scientifici fra ricercatori e di incontri con esponenti delle istituzioni intitolata “La ricerca di genere nelle bioscienze, per uno sviluppo sostenibile”.

L’idea, in linea con l’obiettivo n.5 dell’agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile e con gli orientamenti Horizon 2020 sulla Ricerca e l’Innovazione Responsabili, è stata realizzata con lo scopo di favorire una riflessione comune tra ricercatrici e ricercatori interni/e al dip.to di Biologia, ospiti esterne già impegnate nella ricerca di genere (Adriana Maggi – Centro Eccellenze sulle Malattie Neurodegenerative di Milano; Paola Matarrese – ISS – Centro Medicina di Genere; Anna Alisi – Liver Unit, Ospedale pediatrico Bambin Gesù) e rappresentanti istituzionali (Giuseppe Novelli – Rettore Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Tiziana Frittelli – Direttore Generale del Policlinico Universitario di “Tor Vergata”; Elisabetta Strickland Pres.te CUG – Comitato Unico di Garanzia Università di Roma “Tor Vergata”; Maria Rosaria Tiné – CUN; Maria Amato – Commissione Affari Sociali Camera dei Deputati; Flavia Zucco – Ass.ne Donne e Scienza.
Ne è scaturito un avvio di dibattito, di possibili collaborazioni e confronti che se alimentati potranno rappresentare per il Dipartimento di Biologia ma anche per l’Ateneo un passaggio culturale importante e la definizione di un percorso in sinergia con vari soggetti dell’Ateneo già attivi su questi temi. Tale percorso si orienta verso modelli organizzativi che valorizzino la presenza qualificata delle donne (adeguamento dei regolamenti interni e delle procedure…), nuove prospettive nella didattica e nei progetti di ricerca, iniziative pubbliche a carattere divulgativo e informativo. Sarebbero cambiamenti che vanno appunto nella direzione di uno scambio rinnovato tra la ricerca e quanto si muove nella società e nel dibattito pubblico tanto nelle istituzioni quanto nell’ambito degli organi di governo del mondo della formazione.
In questo senso gli argomenti sviluppati nel corso del convegno hanno appunto intrecciato un dialogo tra ricerca e istituzioni offrendo un panorama ricco e stimolante in sintonia, crediamo, con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e in connessione sia con il rinnovamento delle istituzioni che con l’arricchimento delle prospettive della ricerca. Con le conseguenti ricadute sociali che ciò comporterebbe.
Recependo l’assunto che il livello di sviluppo di un paese, e di uno sviluppo sostenibile, è strettamente correlato al suo gender gap, un primo ambito di interesse ha riguardato l’analisi dei dati relativi al rapporto tra formazione e occupazione in Italia nel confronto tra donne e uomini. (M. R. Tiné). Dati che purtroppo nel tempo si confermano secondo una nota inversione: ai maggiori livelli di istruzione per le donne corrispondono minori tassi di occupazione e più basse retribuzioni. Permane dunque la segregazione verticale: minori posizioni apicali, e quella orizzontale: minore presenza nelle professioni tecniche, a fronte di migliori risultati qualitativi nelle stesse rispetto agli uomini.
Poiché nel Global Gender Gap Report presentato al World Economic Forum l’Italia si colloca al cinquantesimo posto anche a causa degli indicatori relativi a partecipazione al mondo del lavoro e opportunità economiche per le donne, se ne deduce che è giusto e necessario incentivare la loro formazione nelle discipline STEM e agevolare i loro percorsi di leadership. Infatti “Se focalizziamo la nostra attenzione sulla formazione e la carriera universitaria, scopriamo che le studentesse si iscrivono più degli uomini sia ai corsi di laurea (56,2%) sia ai corsi di dottorato (51,4%) e che ottengono anche risultati migliori.[…] Le donne, però, continuano a privilegiare le discipline umanistiche (71%) e sociali (61%) mentre la loro presenza diminuisce quando si passa agli ambiti scientifici e, ancor di più, tecnici. Il successo femminile negli studi universitari per contro si conferma anche nelle lauree tecniche e scientifiche […].
Capire le ragioni di queste scelte formative è quindi importante anche per le conseguenze economiche che ne derivano. Infatti le lauree tecnico-scientifiche sono quelle che hanno maggiori probabilità di successo nel mercato del lavoro in termini di minor tempo di inserimento, maggiore probabilità di occupazione, maggiore stabilità del contratto e di conseguenza reddito più elevato. Una parte del differenziale salariale può essere quindi spiegata con le scelte formative operate dalle donne, sintomo anche di un persistente condizionamento culturale e sociale.” (M. R. Tiné)
Dunque se la presenza di donne nell’area STEM influisce molto su questa graduatoria, le direzioni da intraprendere sono da una parte il superamento degli stereotipi di genere nelle scelte educative delle giovani e la valorizzazione di capacità e abilità che sono culturalmente sottovalutate e quindi poco incoraggiate; dall’altra nelle carriere universitarie l’assegnazione dei fondi per la ricerca in modo paritario. “Guardando alle statistiche dell’European Research Council, appare evidente, data l’esiguità dei progetti presentati da donne e ancor più di quelli finanziati, che si deve intervenire in modo forte.” (E. Strickland)
Se infatti da un lato emergono in modo crescente abilità e competenze femminili di tutto rilievo – il settore delle scienze spaziali tradizionalmente a schiacciante prevalenza maschile ne è un esempio significativo (D. Billi)- le carriere accademiche femminili continuano a essere significativamente svantaggiate.
Passando infatti a considerare “la presenza delle donne nei vari gradi della carriera universitaria […] La percentuale di donne nelle diverse fasce accademiche si attesta al: 50,6% per i post-doc; 45,9% per i ricercatori universitari; 35,6% per i professori associati; 21,4% per i professori ordinari. Al sostanziale equilibrio nelle posizioni post-doc segue poi una forbice che si apre al contrario e più si sale nella scala gerarchica più si allarga a favore degli uomini”. (M.R. Tiné)
Dunque oltre ai criteri di assegnazione dei finanziamenti alla ricerca, sarebbe utile una riflessione su come funzionano “i nuovi meccanismi di valutazione della produttività scientifica, introdotti per l’abilitazione scientifica nazionale ma poi rapidamente estesi anche alle procedure concorsuali, e all’accesso ad altre funzioni della docenza – ad esempio, la possibilità di far parte del collegio dei docenti di un dottorato di ricerca – [e su come eventualmente] giochino a favore o contro la segregazione verticale delle donne nel mondo universitario. Questi meccanismi infatti possono finire con l’aggravare l’effetto di esclusione delle ricercatrici donne dalle progressioni di carriera, o addirittura dalla carriera tout court. Dato che tutta la fase iniziale della carriera, quella che riguarda i ricercatori, è costituita ormai da contratti a tempo determinato, il mancato raggiungimento di certe soglie di produttività significa di fatto essere espulsi dal sistema universitario. Queste soglie di produttività corrispondono ad indicatori statistici di tipo intensivo, cioè relativi a periodi determinati di attività e non cumulativi dell’intera carriera, il che penalizza coloro che alternano, per necessità, periodi di alta e bassa produttività scientifica. Proprio come avviene per le donne nella fase centrale della vita, quando affrontano la maternità e la cura dei figli, quando invece, cumulativamente, ottengono risultati di ricerca paragonabili, se non superiori, a quelli degli uomini. Per non parlare della maggiore tendenza delle ricercatrici donne a perseguire obiettivi interdisciplinari, caratteristica anch’essa penalizzata dagli indicatori attualmente in uso.” (Tiné)
Sul fronte dello sviluppo sostenibile è tra l’altro utile ricordare come esista una tradizione di studiose e ricercatrici all’avanguardia negli studi ambientali e impegnate nella società e nei movimenti ambientalisti a partire dai primi del ‘900 (Lydia Adams-Williams,Rachel Louise Carson, Carolyn Merchant, Bernardine Healy -NIH, Gro Harlem Brundtland – OMS ). E’ infatti questo un ambito nel quale appare indispensabile adottare saperi integrati, interdisciplinari e di lungo periodo, che mettano in dialogo fra loro gli specialismi e adottino una visione sociale inclusiva. Propensioni largamente dimostrate negli approcci scientifici delle studiose. (F. Zucco)
Entrando quindi nel merito più strettamente riferito alla ricerca di genere nelle Bioscienze, intesa come l’approccio sperimentale che considera la variabile del sesso e le differenze di genere nei processi biologici, i contributi ospitati dal convegno hanno rappresentato un interessante prospettiva di riferimento.
In ambito biomedico la medicina di genere investiga tutti gli aspetti delle differenze tra uomo e donna, non solo in patologia, ma anche nella fisiologia e nella biologia. Come detto infatti ben oltre la salute riproduttiva della donna, sono diversi i fattori che concorrono in maniera decisiva alle differenze osservate tra i due sessi: ormoni sessuali, ma anche fattori ambientali, genetici ed epigenetici. Fino ad oggi gli studi clinici, preclinici e non clinici non hanno tenuto conto di queste differenze e i modelli sperimentali utilizzati sono stati sbilancianti, molto spesso a discapito del genere femminile. Ma qualcosa sta cambiando anche come conseguenza delle continue raccomandazioni di Istituzioni internazionali (es. NIH, WHO, ecc.) e nazionali (AIFA, ISS). “sviluppare protocolli che trasferiscano i risultati delle ricerche genere-specifiche nella pratica clinica […] quindi, consentirebbe di diminuire gli errori nella prescrizione delle cure, di aumentare la sicurezza dei trattamenti farmacologici e di assicurare un’adeguata appropriatezza terapeutica generando, così, un risparmio per il SSN.” (P. Matarrese)
Alcuni studi specifici e approfonditi supportano e sostanziano questo orientamento. Se infatti esistono ormai numerosi studi circa le profonde differenze esistenti tra i due sessi, resta decisivo “affrontare la problematica della reale motivazione biologica che durante l’evoluzione le ha generate”, come sottolinea Adriana Maggi. Le cui ricerche hanno portato alla “scoperta della attività marcata degli estrogeni al livello epatico, e [… a]elaborare una teoria che vede questo organo come uno degli elementi fondamentali nella regolazione del metabolismo energetico nei mammiferi di sesso femminile in quanto in grado di percepire i cambiamenti nello stato riproduttivo […] e di adattare il metabolismo energetico (proprio e di altri organi metabolici quali il tessuto adiposo o il muscolo) alle esigenze di ciascuna fase della fisiologia femminile. […] Studi di metabolomica molto approfonditi […] hanno comprovato le significative differenze nelle strategie metaboliche a livello epatico di maschi e femmine”.
Il contributo di Anna Alisi ha invece riguardato gli aspetti della “relazione tra genere e valutazione del rischio e gli effetti di una stessa esposizione al rischio su soggetti appartenenti a generi diversi.” Richiamando la necessità di promuovere “studi epidemiologici e scientifici sui rischi e le risposte di genere legati agli ambienti di lavoro” il contributo ha riguardato l’analisi dell’ espressione genica in lavoratrici esposte a fattori di rischio per tumore mammario a partire da diversi studi sul rapporto tra lavoro a turni notturni e il tumore mammario, con stime di elevazione di rischio che vanno dal 14 al 109 % nei cosiddetti “rotatingshiftworkers” (lavoratori/trici che ruotano su turni comprendenti anche la fascia notturna). L’evoluzione di questi studi potrebbe portare all’identificazione di biomarcatori traslabili rapidamente alla pratica clinica offrendo, sia alla sorveglianza sanitaria che epidemiologica delle lavoratrici a rischio, nuovi strumenti da applicare in programmi di prevenzione personalizzata.
Gli studi gender oriented nel nostro Dipartimento di Biologia attualmente riguardano invece: la salute riproduttiva delle donne durante la chemioterapia e la possibilità di sviluppare adiuvanti feto protettivi (S. Gonfloni). Uno studio su resti scheletrici del Lazio di tre popolazioni medievali (Santa Severa, Cencelle e Colonna) che testimoniano l’esistenza di una differenziazione di genere nelle attività condotte in vita, nei pattern di mortalità, nel ruolo sociale nonché nelle abitudini alimentari (M. C. Martinez Labarga e Marica Baldoni). I rischi e i benefici di una dieta vegana materna sulla progenie (K. Aquilano).

Passando infine al piano delle iniziative della politica e degli adeguamenti legislativi di cui si è anche parlato nel corso della giornata del 6 giugno, il contributo di Maria Amato ha ricordato che “la ricerca secondo principi di genere è un passaggio già inserito nel decreto Lorenzin sulla sperimentazione, approvato al Senato ed attualmente in Commissione XII, esso introduce un approccio metodologico di genere negli studi clinici in fase I. Nello stesso testo è stato inoltre introdotto un articolo sulla medicina di genere e sulla necessità della formazione e della informazione corretta che contribuiscano al cambiamento culturale per una nuova lente con cui guardare alla medicina.[…] Inoltre nella regolamentazione degli Ordini si modifica il testo in un’ottica di parità di genere sia per la rappresentanza che per il governo”.
In tema di cambiamenti normativi è inoltre utile ricordare che a partire dagli Ordinamenti Didattici della LM41 (laurea magistrale in Medicina e Chirurgia) esaminati nell’anno 2017 il CUN, come da richiesta della Conferenza Permanente dei Presidenti di corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, ha suggerito di integrare la Medicina di Genere negli Obiettivi formativi specifici del Corso di Studio in Medicina e Chirurgia.
Importante richiamare infine come l’attività – interna ed esterna al Dipartimento di Biologia -svolta dal gruppo di progetto Starbios2 inserisce il gender all’interno di una visione complessiva secondo cinque temi chiave – impegno sociale, genere, educazione, open access ed etica – fra loro integrati nella prospettiva della RRI (Ricerca Responsabiile e Innovazione), e fortemente orientati verso i diversi obiettivi dello Sviluppo Sostenibile. Gli action plans del progetto sono quindi mirati a produrre cambiamenti virtuosi agendo direttamente nelle istituzioni della ricerca, attivando processi strutturali in grado di modificare profondamente gli orientamenti culturali, le pratiche, i valori, le regole. (C. Montesano)
Il Dipartimento di Biologia è capofila del progetto Starbios2 – Horizon 2020 in un consorzio europeo e internazionale, esso intende promuovere e implementare un approccio responsabile nella ricerca e nell’innovazione nell’ambito delle bioscienze e delle scienze biomediche attraverso piani di azione mirati che, nell’arco di 3 anni, mettano in moto e producano cambiamenti strutturali. (RRI – Responsable Research and Innovation: “an overarching policy strategy which aims to increase the intensity and the quality of the interactions between scientific research and society, so that research and innovation meet the values, needs and expectations of society in the best way possible.”)
Tra gli obiettivi strategici individuati dal progetto, nell’ottica della modernizzazione delle istituzioni della ricerca e dello sviluppo sostenibile ha quindi una rilevanza centrale il Gender, inteso sia dal punto di vista epistemologico – come nelle diverse prospettive di ricerca nel campo delle bioscienze sia possibile considerare la variabile del sesso e le differenze di genere nei processi biologici – sia dal punto di vista dell’uguaglianza nei percorsi di carriera e nell’organizzazione del lavoro.

 

3. Proposte e sviluppi futuri
L’ampia panoramica qui riassunta e scaturita da attività già intraprese, di cui il convegno ha rappresentato una tappa, costituisce una traccia di riflessione e di stimolo utile a pensare modelli, linee guida e buone pratiche. Questo documento, e i materiali di riferimento, si inseriscono in un percorso già in essere e nel quale vari soggetti attivi nell’Ateneo collaborano da tempo. Tale percorso si pone in naturale connessione con le prerogative del Comitato di Ateneo per lo Sviluppo Sostenibile e con le attività che esso intende promuovere, data la pertinenza dell’obiettivo n.5 dell’agenda ONU 2030 e dell’insieme delle sue implicazioni.
In particolare tali nessi sono rappresentati dai processi virtuosi e di cambiamento perseguiti verso la Ricerca e l’Innovazione Responsabili (RRI) e lo sviluppo sostenibile in relazione a:
- Equality plan e riduzione del gender gap.
Obiettivo che richiama verso nuovi modelli organizzativi del lavoro, revisione dei sistemi di valutazione accademici,bilanci di genere e produzione di indicatori specifici (economici, di posizioni nelle carriere, di allocazione di spazi e risorse…) Le iniziative già intraprese vedono impegnati il Dip.to di Biologia, il gruppo di progetto Starbios2, il CUG – Comitato Unico di Garanzia di Ateneo, Annalisa Rosselli (Economia)
- Ricerca biomedica e medicina di genere: ricerca gender oriented (cambiamento culturale nella visione della medicina, migliore successo delle cure mediche, risparmio della spesa sanitaria). Dip.to di Biologia, gruppo di progetto Starbios2.
- Formazione didattica e divulgazione scientifica nell’ambito discipline STEM (Introduzione dei temi nei corsi ordinari e nelle eventuali lezioni interfacoltà che il Comitato di Ateneo per lo Sviluppo Sostenibile vuole promuovere, nei seminari interdipartimentali, nelle numerose iniziative divulgative con le scuole, in eventi pubblici (Dip.to di Biologia, gruppo di progetto Starbios2, dip.to di Matematica)

 

Abstract delle relazioni al convegno

Flavia Zucco (Associazione Donne e Scienza)
La ricerca di genere, ripensare il ruolo sociale della scienza ed il modello di sviluppo.
Le donne sono state le prime a porre l’attenzione agli equilibri ambientali.
Lydia Adams-Williams, attivista e scrittrice del movimento per la conservazione della natura nel 1904, scriveva:
“gli uomini sono troppo occupati a costruire ferrovie, navi, progetti di grande ingegneria e a sfruttare grandi imprese commerciali, per considerarne l’impatto ambientale.
Sta alle donne educare il sentimento pubblico a salvare la terra da uno spreco rapace ed esaustivo delle risorse da cui dipende il nostro benessere quello dei figli e dei figli dei figli.”
Il movimento ha anche fondato il giornale “EnvironmentalJustice” abbracciando una definizione molto più ampia di giustizia sociale. Esso offre un forum molto ampio a discipline diverse: da quelle indirizzate agli studi ambientali a quelle della storia e degli studi di genere. Promuove una profonda analisi di come una rete di ideologie e azioni complesse abbiano impattato sulla terra, suggerendo nuove tracce di pensiero e nuovi strumenti che possano contribuire a soluzioni possibili per problemi di lunga prospettiva.
Altre due figure fondamentali vanno ricordate:
Rachel Louise Carson è stata una biologa e zoologa statunitense. A dispetto delle aspettative, superò tutti gli altri pretendenti e nel 1936 divenne la seconda donna ad essere stata assunta, a tempo indeterminato, come biologa marina dal Dipartimento Statunitense per la Pesca.
E’ lei a denunciare l’uso sconsiderato dei pesticidi. La sua battaglia porterà alla proibizione del DDT. Ancora prima della pubblicazione di Primavera silenziosa nel 1962, vi fu una strenua opposizione. Il Time riferisce nel 1999: “La Carson venne assalita violentemente da minacce di cause e derisione, inclusa l’insinuazione che questa scienziata così meticolosa fosse una “donna isterica” non qualificata a scrivere un libro di tale portata. Un imponente contrattacco venne organizzato e guidato dalla Monsanto, Velsicol, American Cyanamid – come da tutta l’industria chimica – puntualmente supportata dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti come pure dai più cauti nel mondo dei mass media.”
La Carson aveva messo in chiaro che non stava sostenendo la messa al bando o il completo ritiro dei fitofarmaci utili, ma ne stava invece incoraggiando un uso responsabile e amministrato con cautela con la consapevolezza dell’impatto delle sostanze chimiche sull’intero ecosistema. Infatti, conclude la sua sezione sul DDT in Primavera Silenziosa non invocando una totale proibizione ma con Un consiglio pratico dovrebbe essere “Spruzza il meno che ti sia possibile” piuttosto che “Spruzza al limite delle tue capacità””2].
È autrice di molti libri tra cui Primavera silenziosa (Silent Spring 1962) che ebbe un enorme successo negli USA e lanciò il movimento ambientalista. Primavera silenziosa ebbe un grande effetto negli Stati Uniti incitando un cambiamento nella politica nazionale sui fitofarmaci.
“Più riusciamo a focalizzare la nostra attenzione sulle meraviglie e le realtà dell’universo attorno a noi, meno dovremmo trovare gusto nel distruggerlo.” (Rachel Carson)

Carolyn Merchant è una ecofemminista americana e storica della scienza. Insegna Storia ambientale, filosofia ed etica alla Università di Berkeley.
E’ famosa per la sua teoria e libro “The Death of Nature”, dove lei identifica l’illuminismo come il periodo in cui la scienza ha incominciato ad atomizzare, oggettificare e dissezionare la natura, come se fosse un’entità inerte.
“The femaleearthwascentral to organiccosmology”: si trattava di una teoria dell’organismo che vede tutto collegato: l’individuo, la terra, il cosmo. La rivoluzione scientifica ha distrutto questa visione per consegnarne un’altra fondata sulle merci. (C.Merchant, The Death of Nature, 1980: 278)
Il cambiamento nel modo di vedere la natura e di studiarla implica, dunque, una radicale trasformazione delle relazioni non solo tra esseri umani e natura, ma anche interno alla società tra diversi gruppi sociali e tra donne e uomini.

Le donne avvertono essenzialmente un forte senso di responsabilità verso i beni comuni ed hanno visioni integrate del mondo. Le donne scienziate, ad es. non si abbandonano allo specialismo ma lo inseriscono in un quadro più complesso e hanno mostrato grande propensione per la interdisciplinarietà. Da sempre sono impegnate a potenziare la diffusione della cultura della sobrietà e dell’economia (oikos).
Per queste ragioni bisogna incentivare la loro formazione nelle discipline dure e agevolare i percorsi di leadership.
Bernardine Healy (NIH) e Gro Harlem Brundtland (OMS) dimostrano che le donne in posizioni decisionali riescono a modificare gli orizzonti della conoscenza a favore di una visione più sociale ed inclusiva.

Carla Montesano (Università di Roma “Tor Vergata” – Gruppo di ricerca di Immunologia e Patologia Generale)
Il progetto STARBIOS2
Con l’approvazione dell’Agenda 2030 nel settembre 2015, l’assemblea generale dell’ONU si è posta 17 obiettivi che nel loro complesso muovono da un assunto condiviso: l’attuale sistema in cui viviamo non è più sostenibile, urge ripensarlo a 360°, non solo in chiave economica, ma anche ambientale, sociale e culturale.
La constatazione che lo sviluppo sostenibile sia strettamente connesso a un rapporto più stretto tra scienza e società è stata la spinta che ha portato l’Università di Roma “Tor Vergata”, insieme ad altre 5 Università europee e a 3 Istituti di Ricerca non europei, a sviluppare il progetto STARBIOS2.
Finanziato dal programma Horizon 2020 che tra i suoi obiettivi ha quello di promuovere un approccio responsabile della ricerca e dell’innovazione (RRI), secondo una visione strategica di politica globale che punti ad incrementare e migliorare le interazioni tra “European Research Area and European society”, il progetto STARBIOS2 nasce proprio per dare una risposta nella direzione dello sviluppo sostenibile nell’ ambito dell’Unione Europea. Nella consapevolezza che il rischio di perdita di connessione tra il mondo della ricerca e la società possa avere (e in parte già ha) una vasta gamma di conseguenze che, a lungo andare, potrebbero rendere la ricerca europea:
• Incapace di affrontare problemi fondamentali e di contribuire al raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile (economici, sociali e ambientali);
• Non in grado di sfruttare le sue potenzialità in termini di innovazione e impatto sociale;
• Socialmente isolata, eticamente contestata e non sostenuta da cittadini, autorità pubbliche e attori economici, con conseguenze negative sulla disponibilità di fondi pubblici alla ricerca e sugli investimenti di privati.

Per contro un migliore e più stretto rapporto tra scienza e società attraverso la promozione di un costante confronto tra mondo della ricerca e società, renderà più adeguate le interazioni e le risposte della scienza ai bisogni e ai valori della società europea in termini di processi e di risultati.
Obiettivo del progetto Starbios2 RRI è quindi produrre cambiamenti virtuosi in questo senso agendo direttamente nelle istituzioni della ricerca, attivando processi strutturali in grado di modificare profondamente gli orientamenti culturali, le pratiche, i valori, le regole, in relazione a cinque temi chiave fra loro integrati in una visione complessiva: impegno sociale, genere, educazione, open access ed etica.
Tra questi la parità di genere coincide con l’obiettivo n.5 dell’agenda ONU2030, che mira a garantire la partecipazione piena ed efficace delle donne e le pari opportunità di leadership a tutti i livelli decisionali nella vita politica, economica e pubblica attraverso provvedimenti legislativi, normative e regolamenti, buone pratiche.
In assonanza con questi obiettivi, l’impegno di STARBIOS2 è quello di favorire l’uguaglianza di genere e le pari opportunità nelle carriere all’interno degli istituti di ricerca nell’ambito delle bioscienze come un passo necessario per la loro modernizzazione.
Quanto alle pratiche sperimentali della ricerca scientifica, a partire dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Roma “Tor Vergata”, il progetto intende promuovere nell’ambito delle Bioscienze un approccio che prenda in considerazione le variabili di sesso e di genere nei progetti di ricerca. In dialogo con quella parte del mondo scientifico che già da tempo considera con buoni esiti lo studio della diversità dei processi fisiologici e patologici nella donna e nell’uomo, o nella sperimentazione farmacologica.

Maria Amato (Commissione Affari Sociali – Camera dei Deputati)
La ricerca non è un costo ma la via obbligatoria per affrontare il futuro, rappresenta un investimento, come lo è la prevenzione.
La ricerca secondo principi di genere è essere nel nostro tempo. È un passaggio già inserito nel decreto Lorenzin sulla sperimentazione, introducendo un approccio metodologico di genere negli studi clinici in fase I, approvato al Senato ed attualmente in Commissione XII
Nello stesso testo abbiamo introdotto un articolo sulla medicina di genere e sulla necessità di formazione e di informazioni corrette che contribuiscano al cambiamento culturale per una nuova lente con cui guardare alla medicina.
Ma in una prospettiva non solo clinica, il cambiamento culturale passa attraverso diversi modelli. Nello stesso testo, nella regolamentazione degli Ordini si modifica il testo in un’ottica di parità di genere sia per la rappresentanza che per il governo. Il cambiamento culturale è sempre complesso ma i tempi per la parità di genere sono più che maturi.

Paola Matarrese (Centro di Riferimento per la Medicina di Genere, Istituto Superiore di Sanità)
Differenze di genere una nuova prospettiva per la ricerca biomedica
La medicina di genere cerca di capire la patogenesi, prevenire, diagnosticare e curare le malattie comuni ai due sessi che incidono diversamente su uomo e donna: nella sua accezione più moderna la medicina di genere investiga tutti gli aspetti delle differenze tra uomo e donna, non solo in patologia, ma anche nella fisiologia e nella biologia. Pertanto, la medicina di genere non va intesa come la medicina degli apparati riproduttivi, ne’ come salute della donna.
Differenze di genere sono state osservate nell’ insorgenza, incidenza, progressione, risposta ai trattamenti e prognosi di numerose patologie autoimmuni, infettive e neoplastiche. I fattori responsabili di queste differenze sono numerosi, tra questi un ruolo importante è svolto dagli ormoni sessuali, ma anche fattori ambientali, genetici ed epigenetici concorrono in maniera decisiva alle differenze osservate tra i due sessi. Infatti, sostanziali differenze tra maschi e femmine sono state riscontrate anche in età pediatrica, ancor prima che il fattore ormonale diventi rilevante. Fino ad oggi gli studi clinici, preclinici e non clinici non hanno tenuto conto di queste differenze e i modelli sperimentali utilizzati sono stati sbilancianti, molto spesso a discapito del genere femminile. Ma qualcosa sta cambiando anche come conseguenza delle continue raccomandazioni di Istituzioni internazionali (es. NIH, WHO, ecc.) e nazionali (AIFA, ISS) in tal senso. Lo sviluppo della medicina di genere anche a livello della pratica clinica può determinare numerosi vantaggi: ridurre i livelli di errore nella diagnosi e cura, promuovere l’appropriatezza terapeutica, migliorare e personalizzare le terapie, sviluppare protocolli che trasferiscano i risultati delle ricerche genere-specifiche nella pratica clinica. Promuovere un’ottica di genere, quindi, consentirebbe di diminuire gli errori nella prescrizione delle cure, di aumentare la sicurezza dei trattamenti farmacologici e di assicurare un’adeguata appropriatezza terapeutica generando, così, un risparmio per il SSN.

Adriana Maggi e Sara Della Torre (Centro Eccellenze sulle Patologie Neurodegenerative Università degli studi di Milano, Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari)
Perché la fisiopatologia maschile dovrebbe essere così diversa da quella femminile?
Le differenze significative nella prevalenza di malattie a carico dei sistemi metabolico, cardiovascolare, immunitario, scheletrico e nervoso hanno stimolato una serie di studi sulla fisiologia dei due sessi che stanno dimostrando inattese differenze tra soggetti di sesso maschile e femminile della cui natura si conosce ancora molto poco. Nell’era della medicina di precisione una migliore comprensione delle origini biologiche di tali diversità è ritenuta indispensabile per la definizione di strategie di prevenzione e cura di diverse patologie. Di fatto il numero di studi sulle differenze di sesso/genere è significativamente aumentato nell’ultima decade e una larga serie di studi descrittivi ha permesso di provare ulteriormente le profonde differenze esistenti tra i due sessi senza tuttavia affrontare la problematica della reale motivazione biologica che durante l’evoluzione le ha generate.
Il nostro laboratorio da anni studia la fisiopatologia femminile e il meccanismo d’azione fisiologico e molecolare dei recettori per gli estrogeni. L’inattesa scoperta della attività marcata degli estrogeni a livello epatico, e gli studi conseguenti a tale osservazione ci hanno permesso di elaborare una teoria che vede questo organo come uno degli elementi fondamentali nella regolazione del metabolismo energetico nei mammiferi di sesso femminile in quanto in grado di percepire i cambiamenti nello stato riproduttivo (pubertà, varie fasi del ciclo estrale/mestruale, gravidanza allattamento) e di adattare il metabolismo energetico (proprio e di altri organi metabolici quali il tessuto adiposo o il muscolo) alle esigenze di ciascuna fase della fisiologia femminile. L’ipotesi che noi perseguiamo è che dalla comparsa dei mammiferi sulla terra (circa 120 milioni di anni or sono) gli organismi di sesso femminile, per poter rispondere alle nuove richieste riproduttive, abbiano dovuto elaborare strategie metaboliche complesse che li hanno portati a divergere significativamente dagli organismi maschili la cui attività riproduttiva è rimasta inalterata rispetto agli ovipari. Studi di metabolomica molto approfonditi svolti più recentemente nel nostro laboratorio hanno comprovato le significative differenze nelle strategie metaboliche a livello epatico di maschi e femmine supportando le nostre ipotesi. Considerando quindi il fegato e l’azione degli estrogeni su questo organo come i principali elementi di differenziamento tra organismi femminili e maschili, possiamo più facilmente comprendere la natura della differente prevalenza di malattie metaboliche, cardiovascolari e possibilmente immuni.
Bibliografia
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2. Villa A, Della Torre S, Stell A, Cook J, Brown M, MAGGI A. Tetradianoscillation of estrogenreceptor α isnecessary to preventliverlipiddeposition. ProcNatlAcadSci U S A. (2012) 109:11806-11.
3. Della Torre S, Rando G, Meda C, Stell A, Chambon P, Krust A., Ibarra C, Magni P, Ciana P, MAGGI A Amino Acid-dependentactivation of liverEstrogenReceptoralphaintegratesmetabolic and reproductivefunctions via IGF-1. Cell Metab. (2011) 13: 205-214.
4. Della Torre S, Benedusi V, Fontana R, MAGGI A. Energy metabolism and fertility: a balance preserved for female health.Nat Rev Endocrinol. (2014)10:13-23
5. Dealla Torre S and Maggi A….. Cell Metabolism 2017

Anna Alisi (A.R. Malattie multifattoriali e fenotipi complessi, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù;Salvatore Zaffina (Responsabile Servizio Medicina del Lavoro, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù)
Analisi di espressione genica per la sorveglianza di lavoratrici esposte a fattori di rischio per tumore mammario
La medicina di genere rappresenta una nuova frontiera della sfida sulla salute in quanto negli ultimi anni si sono accumulate sia nel campo medico che in quello della ricerca numerose evidenze delle differenze uomo-donna, mettendo in luce la necessità di approcciare alla medicina personalizzata tenendo conto anche delle differenze di genere. Questo passaggio culturale nell’ottica della medicina del lavoro vuole promuovere nuove indagini atte ad indagare sia la relazione tra genere e valutazione del rischio che gli effetti di una stessa esposizione a rischio su soggetti appartenenti a generi diversi. In questa ottica dovrebbero essere promossi studi epidemiologici e scientifici sui rischi e le risposte di genere legati agli ambienti di lavoro. Un esempio di questo tipo di studi potrebbe essere l’analisi di rischio individuale per il tumore mammario (TM). Il TM è la prima causa di mortalità per tumore nelle donne e colpisce almeno una donna su dieci nell’arco della vita. Pertanto, la diagnosi precoce e determinare quali pazienti con TM localizzato sono a rischio per la progressione della malattia e la diffusione metastatica è una delle sfide attuali per migliorare la prognosi di questi pazienti. Diversi studi hanno esaminato il rapporto tra lavoro a turni notturno ed il TM, con stime di elevazione di rischio che vanno dal 14 al 109 % nei cosiddetti “rotatingshiftworkers” (lavoratori che ruotano su turni) comprendenti anche la fascia notturna. La biopsia liquida, che valuta i profili di espressione genica delle cellule tumorali circolanti, spesso associate con la componente delle cellule mononucleate del sangue, è recentemente emersa come una tecnica potente per i casi di TM metastatico. Quindi, abbiamo avviato uno studio pilota per indagare le variazioni di espressione di un gruppo di 624 geni in un piccolo gruppo di lavoratrici composto da: 3 lavoratrici sane non sottoposte a turnazione notturna, 3 lavoratrici sane sottoposte a turnazione notturna, 4 lavoratrici con TM sottoposte a turnazione notturna. I dati ottenuti ad oggi, seppur preliminari, sembrerebbero a favore dell’ipotesi che i cambiamenti dei profili dell’espressione genica nelle cellule mononucleate del sangue periferico potrebbero correlare con la presenza del TM nelle lavoratrici esposte a turnazione. Studi da effettuare su una più ampia casistica potrebbero portare all’identificazione di biomarcatori che saranno traslabili rapidamente alla pratica clinica offrendo, sia alla sorveglianza sanitaria che epidemiologica delle lavoratrici a rischio, nuovi strumenti da applicare in programmi di prevenzione personalizzata.

Elisabetta Strickland (Dip.to di Matematica, CUG – Comitato Unico di Garanzia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
La Gender Equality nei finanziamenti alla ricerca.
Come donne oggi è vitale dare un contributo importante nell’area inerente alle competenze STEM, volta ad incrementare la competitività in campo scientifico e tecnologico. Il condizionamento esterno degli stereotipi di genere, delle aspettative della società, delle famiglie e della scuola non deve più pesare sulla scelta professionale delle donne, dato che valorizzare il talento scientifico femminile è anche una questione di diritti umani e giustizia sociale: tutti gli individui devono avere le stesse opportunità di accesso all’educazione scientifica. Le scelte educative STEM, fertile terreno di confronto e dialogo, possono diventare inoltre un utile strumento per affermare la parità di genere, dato che in esse ci si confronta, si instaura un dialogo tra punti di vista, idee e prospettive diverse e le donne possono apportare un contributo importante, fondamentale, imprescindibile, in virtù delle loro caratteristiche peculiari di sensibilità, motivazioni e approccio al lavoro. Anzi, molto spesso sono delle pioniere, attente a combattere il divario tra uomini e donne che le separa da una piena realizzazione, senza porsi limiti. La verità è che con le STEM si possono raggiungere risultati che non abbiamo ancora nemmeno immaginato. Affinché questo accada è necessario che i fondi per la ricerca vengano distribuiti in modo paritario e che le donne siano incoraggiate a presentare progetti. Guardando alle statistiche dell’European Research Council, appare evidente, data l’esiguità dei progetti presentati da donne e ancor più di quelli finanziati, che si deve intervenire in modo forte. Del resto i numeri del Global Gender Gap elaborato annualmente in occasione del World Economic Forum parlano chiaro: l’Italia è al cinquantesimo posto nella classifica, mentre il primo posto va all’Islanda, il secondo alla Finlandia, il terzo alla Norvegia, il quarto alla Svezia, il quinto al Rwanda, il sesto all’Irlanda, Il tredicesimo alla Germania, il diciassettesimo alla Francia, il ventesimo al Regno Unito. La presenza di donne nell’area STEM influisce molto su questa graduatoria, pertanto in questa direzione è necessario muoversi.

Maria Rosaria Tiné (Università di Pisa; Consiglio Universitario Nazionale (CUN)– Coordinatrice della commissione “Politiche per la valutazione la qualità e l’internazionalizzazione della ricerca”
Bilanci di genere sulle carriere universitarie
Il World Economic Forum ha presentato lo scorso anno il Global Gender Gap Report, che si propone di misurare le disparità di genere,utilizzando un indice multidimensionale incentrato su quattro macro aree: salute e sopravvivenza; educazione; partecipazione al mondo del lavoro ed opportunità economiche; responsabilizzazione in politica. L’Italia si piazza al 50esimo posto (su 144) se si considera l’indice globale, ma scivola più in basso nella classifica se si considerano gli ultimi due sotto-indici. Le donne italiane vivono infatti in buona salute in media tre anni più degli uomini e il loro livello di scolarizzazione è maggiore. Sono invece la dimensione economica e quella politica a farci retrocedere. I tassi di occupazione femminile molto bassi e i differenziali retributivi ci relegano ad un’umiliante127esima posizione, ben al di sotto della media mondiale. Oggettivi e quantificabili sono in particolare i fenomeni della segregazione orizzontale (poche donne in professioni tecniche) e di quella verticale (poche donne in posizioni apicali).

Se focalizziamo la nostra attenzione sulla formazione e la carriera universitaria, scopriamo che le studentesse si iscrivono più degli uomini sia ai corsi di laurea (56,2%) sia ai corsi di dottorato (51,4%).Ottengono anche risultati migliori. Sono il59,2% del totale dei laureati e il52,4% del totale di dottori di ricerca. Inoltre si laureano più giovani e con voti più alti di quelli dei loro colleghi maschi. Le donne, però, continuano a privilegiare le discipline umanistiche (71%) e sociali (61%) mentre la loro presenza diminuisce quando si passa agli ambiti scientifici e, ancor di più, tecnici. Con riferimento ai dati del 2015 si va da un minimo del 23% nei settori dell’Ingegneria Industriale e dell’Informazione, passando per il 33% di Matematica, Informatica e Fisica, il 40% di Geologia, il 45% di Ingegneria Civile e Architettura, il 50% di Agraria, Veterinaria ed Economia, il 60% di Giurisprudenza, il 65% di Chimica, Farmacia, Medicina e Scienze Politiche, il 70% di Biologia, il 75% di Storia e Filosofia, fino all’80% di Lettere e Lingue. Il successo femminile negli studi universitari peraltro si conferma anche nelle lauree tecniche e scientifiche, tradizionalmente meno frequentate dalle donne. Capire le ragioni di queste scelte formative è importante per le conseguenze economiche che ne conseguono. Infatti le lauree tecnico-scientifiche sono quelle che hanno maggiori probabilità di successo nel mercato del lavoro in termini di minor tempo di inserimento, maggiore probabilità di occupazione, maggiore stabilità del contratto e di conseguenza reddito più elevato. Una parte del differenziale salariale può essere quindi spiegata con le scelte formative operate dalle donne, sintomo anche di un persistente condizionamento culturale e sociale.
Altrettanto interessante è analizzare la presenza delle donne nei vari gradi della carriera universitaria. La percentuale di donne nelle diverse fasce accademiche si attesta al: 50,6% per i post-doc; 45,9% per i ricercatori universitari; 35,6% per i professori associati; 21,4% per i professori ordinari. Al sostanziale equilibrio nelle posizioni post-doc segue poi una forbice che si apre all’incontrario e, più si sale nella scala gerarchica, più si allarga a favore degli uomini.
Ritengo che sarebbe interessante studiare, con analisi fondate sulla base di dati disponibili, se e quanto i nuovi meccanismi di valutazione della produttività scientifica, introdotti per l’abilitazione scientifica nazionale ma poi rapidamente estesi anche alle procedure concorsuali e all’accesso ad altre funzioni della docenza – ad esempio, la possibilità di far parte del collegio dei docenti di un dottorato di ricerca – giochino a favore o contro la segregazione verticale delle donne nel mondo universitario. Prima di prendere posizione è conveniente attendere la pubblicazione di studi accurati sull’argomento, ma temo sinceramente che questi meccanismi possano finire con l’aggravare l’effetto di esclusione delle ricercatrici donne dalle progressioni di carriera, o addirittura dalla carriera tout court. Dato che tutta la fase iniziale della carriera, quella che riguarda i ricercatori, è costituita ormai da contratti a tempo determinato, il mancato raggiungimento di certe soglie di produttività significa di fatto essere espulsi dal sistema universitario. Queste soglie di produttività corrispondono ad indicatori statistici di tipo intensivo, cioè relativi a periodi determinati di attività e non cumulativi dell’intera carriera, il che penalizza coloro che alternano, per necessità, periodi di alta e bassa produttività scientifica. Proprio come avviene per le donne nella fase centrale della vita, quando affrontano la maternità e la cura dei figli, quando invece, cumulativamente, ottengono risultati di ricerca paragonabili, se non superiori, a quelli degli uomini. Per non parlare della maggiore tendenza delle ricercatrici donne a perseguire obiettivi interdisciplinari, caratteristica anch’essa penalizzata dagli indicatori attualmente in uso.
Insomma le donne sembrano ancora lontane dal riuscire a sfondare quel soffitto di cristallo che da troppo tempo impedisce loro di spiccare il volo. Eppure si può ancora nutrire fiducia. I fenomeni sociali non hanno quasi mai andamenti lineari, cioè a velocità costante, ma possono accelerare molto in base al livello di diffusione della consapevolezza razionale della loro esistenza e natura. Poiché è sempre più diffusa la consapevolezza dell’importanza di superare le disparità di genere, nell’interesse della società più ancora che delle donne, anche per le ricerche e le iniziative poste in campo con crescente convinzione e maturità, la meta potrebbe essere più vicina di quanto sembri.

Daniela Billi (Dip.to di Biologia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
Le donne e la ricerca spaziale
Pochi ambiti di ricerca sono squisitamente ad appannaggio maschile come quello spaziale.
Ciò nonostante la figura femminile sta emergendo con forza grazie al lavoro di pioniere che con grande determinazione hanno conquistato un ruolo di prestigio e di comando. A partire dalla Valentina Tereshkov, prima donna ad orbitare intorno alla Terra alla Samantha Cristoforetti, prima astronauta italiana nella stazione spaziale internazionale. Per arrivare ad Amalia Ercoli-Finziuna delle massime esperte internazionali in ingegneria aerospaziale e a donne che per la prima volta ricoprono incarichi di comando come PascaleEhrenfreund Chair del DLR Executive Board e Simona di Pippo direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio extra-atmosferico.
Fino ad arrivare alla notizia di pochi giorni fa delle 6 astrofisiche italiane che hanno conquistato la NASA con la loro ultima pubblicazione.
Per i successi raggiunti queste donne sono fonte di ispirazione per tutte noi e quando riescono a divulgare i loro lavori ai più giovani e in particolar modo alle più giovani portano a termine la missione più difficile: quello di avvicinare le giovani alla ricerca spaziale.
In questo contesto vanno anche ricordate le iniziative di educational e outreach coordinate dalla Agenzia Spaziale che da qualche anno è attiva nel promuovere iniziative allo scopo di avvicinare i giovani allo spazio.

Stefania Gonfloni (Dip.to di Biologia, Università di Roma “Tor Vergata”)
Proteggere la salute riproduttiva delle donne durante la chemioterapia
Ovociti quiescenti della riserva ovarica sono squisitamente suscettibili allo stress genotossico. L’insufficienza ovarica e l’infertilità sono gli effetti negativi principali delle terapie antitumorali. Conservare la fertilità è un problema urgente per le sopravvissute al cancro. Le opzioni disponibili per le donne dipendono dall’età delle pazienti e dall’urgenza (e tipo) di terapia del cancro. Gli approcci terapeutici per preservare la fertilità nelle donne sottoposte a terapie contro il cancro sono attualmente inefficaci. Ciò è in parte dovuto alla limitata conoscenza dei meccanismi molecolari che le cellule germinali utilizzano per riparare le lesioni del DNA, o per attivare i segnali che portano alla loro degenerazione. I nostri studi hanno lo scopo di indagare i meccanismi alla base del danno ovarico indotto dalla chemioterapia al fine di sviluppare adiuvanti fertoprotettivi da somministrare contemporaneamente con la chemioterapia.

Cristina Martínez-Labarga, Marica Baldoni (Laboratorio di Biologia dello Scheletro e Antropologia Forense Dipartimento di Biologia, Università di Roma “Tor Vergata”)
La voce delle ossa: già dal Medioevo le donne venivano da Venere e gli uomini da Marte
Lo studio antropologico condotto su resti scheletrici medievali del Lazio ha mostrato come nel Medioevo fossero ben visibili differenze di genere. In particolare vengono mostrati dei flash di tre popolazioni medievali (Santa Severa, Cencelle e Colonna) in cui lo studio del materiale scheletrico testimonia l’esistenza di una differenziazione nelle attività condotte in vita, nei pattern di mortalità, nel ruolo sociale nonché nelle abitudini alimentari. Possiamo quindi affermare che già dal Medioevo uomini e donne sembrano provenire da pianeti differenti.

Katia Aquilano (Dipartimento di Biologia, Università di Roma “Tor Vergata”)
Rischi e benefici di una dieta vegana materna sulla progenie
Le diete vegetariane e persino le vegane sono estremamente salutari ed hanno un minore impatto sull’ambiente rispetto alle diete che contengono alimenti di origine animale. In genere, le diete vegane garantiscono un sufficiente apporto di tutti i macronutrienti (lipidi, carboidrati, proteine) e micronutrienti (vitamine e minerali) anche se necessitano della supplementazione di vitamina B12 che si trova esclusivamente negli alimenti di origine animale. Tuttavia, se non correttamente bilanciate queste diete sono a rischio per ciò che concerne l’introito di proteine e amminoacidi essenziali, in quanto, ad eccezion fatta per i legumi e le noci, i vegetali contengono poche proteine e proteine di basso valore biologico. Il fabbisogno proteico aumenta durante la gravidanza e l’allattamento, poiché alcuni amminoacidi essenziali (es. metionina) e le proteine sono importanti per il corretto sviluppo embrionale, l’accrescimento e il metabolismo corporeo. Pertanto un’alimentazione vegana materna improvvisata e non ben bilanciata in termini di proteine può innescare difetti metabolici e di sviluppo importanti che possono mettere a rischio la salute della progenie nella fase adulta.